Quattro maggio, inizia la cosiddetta fase due. Oggi è anche il mio ultimo giorno di lavoro e come in molti altri luoghi di lavoro si è deciso di farci rientrare in sede. Domani però io non sarò più impiegata e mi sembra anche una presa in giro della sorte doverci andare oggi. Esco non contentissima, avrei preferito rimanere a casa come nei giorni scorsi. Il viaggio sui mezzi pubblici (metro A e C) non va male, anzi, è tranquillo e abbastanza rapido, nonostante lo scambio a San Giovanni sia ora più complicato di prima (oltre a dover vidimare due volte il biglietto, come prima, si deve uscire e rientrare da ingressi diversi della stazione, uscendone). A lavoro tutto bene, atmosfera rilassata. Peccato poi il rientro.
Il rientro è il caos. Tutto normale fino a San Giovanni, quando all’ingresso della metro C la folla si accalca. L’azienda di trasporti locale, altrimenti conosciuta come Atac, già nota per la grande cura nel gestire il servizio pubblico della capitale italiana, non ha previsto un aumento delle corse (sulla metro C al massimo ogni 9 minuti), nonostante al momento sia possibile l’ingresso della metà delle persone rispetto alla capienza dei vagoni.
La metro C serve una delle zone più popolose di Roma. Questo provoca un tanto temuto assembramento. Le persone arrivano dalla linea A, che ha una frequenza normale, diciamo di una corsa ogni cinque minuti al massimo. Nonostante queste si avvicendino a piccoli gruppi, diventano sempre di più. Il personale addetto al blocco si scusa, parla di massimi sistemi e di rispetto tra le persone che ci salverà, la gente aumenta, c’è chi fa finta di non vedere l’informe agglomerato umano che si va addensando e prova a scendere le scale.
Tutto sommato è una bella giornata, ma l’attesa è snervante, quasi tutti tornano da lavoro. Inizio a pensare che dei massimi sistemi di cui sopra, come del fatto che “i controllori fuori dalle scale servono perché non siamo in Germania, lì si metterebbero da soli in fila” (ma in Germania le metro passano ogni 9-12 minuti?), si parli più che altro per evitare il linciaggio.
Ok, scelgo la salvezza, mi muovo a piedi alla stazione successiva, salgo sul primo treno, mi siedo, aspetto che faccia avanti e indietro e mi porti alla stazione di casa.

Sono salva! Ci ho messo solo mezz’ora in più, che sarà mai (l’Atac si era premurata di dirci che tutto stava tornando alla normalità, ma chissà se poi è successo), ho aspettato solo una ventina di minuti nella speranza di entrare a San Giovanni, ma che sarà mai! Esco dall’ascensore della stazione di arrivo, lo prendo sola, non dovrei aver corso pericoli! Arrivo al percorso guidato per uscire (separato come in tutte le stazioni da quello d’entrata) e noto che hanno chiuso proprio l’uscita più vicina, che è quella per i disabili (ma anche per le tanto menzionate biciclette che dovrebbero salvare la mobilità romana contingentata causa Covid, le carrozzine delle madri con figli…che tanto tra smartworking e scuole chiuse non possono uscire, etc.). Seguo il percorso indicato, con il malessere di chi vive in una capitale piena di disfunzioni croniche, in cui per due mesi non si sono garantiti i servizi di mobilità dopo le 21, in cui il trasporto pubblico era difficile prima e probabilmente sarà utopico ora. Chiudo questa paginetta di diario con un pensiero semplice e forse semplicistico: e se fossi stata un’infermiera o una dottoressa che lavora al Policlinico Casilino e doveva fare il turno serale?
Ada Conti
Ps. Ho cercato di capire se fosse possibile avere un rimborso della tessera Metrebus visto che per un periodo di tempo non è stato garantito il servizio h24, riducendone fortemente l’utilità per chi, come me, fa lavori che prevedono anche spostamenti notturni e che l’aveva acquistata anche per poter fruire di un servizio nelle ore notturne. La risposta è stata negativa.